
Ho ascoltato le sue parole, ho guardato i suoi occhi umidi, occhi spaventati eppure ancora capaci di amore e dedizione, lui è Samuel Modiano, Sami per molti, nato a Rodi nel 1930.
Fu deportato a Birkenau con il padre e la sorella, aveva poco più di tredici anni. Il padre restò accanto a lui, nella stessa baracca. Era una luce nell’ombra per Sami, era certo impossibile per un ragazzo come lui comprendere il perché fosse stato prelevato insieme a tanti altri della sua stessa religione, e trasportato in un viaggio allucinante su una nave bestiame in condizioni disumane in un luogo inospitale, dove era stato rasato – era così fiero dei suoi capelli – e gli era stata imposta una sorta di divisa, un pigiama a righe sulla pelle nuda. A Birkenau il clima era così freddo, eppure quel pigiama restava sempre lo stesso sulla pelle nuda, e quando c’erano diciotto gradi sotto zero Sami non sapeva come riparasi, come proteggersi e come proteggere chi amava tanto, suo padre che era rimasto vicino a lui.
Un giorno, dalle baracche di fronte divise da lui attraverso metri e metri di filo spinato, una figura immobile lo guardò a lungo. Sami ricambiò quello sguardo, ma non credeva di conoscere quella figura che sì, era una femmina. Gli sembrava di non averla mai vista prima, con la divisa a righe anche lei, tutta rasata sulla testa, di una magrezza impossibile da raccontare. Ma avvicinandosi al filo spinato la riconobbe: era sua sorella Lucia da cui era stato separato all’arrivo al campo di concentramento. Sami sentì gli occhi riempirsi di lacrime: era lei, era lei. Avrebbe voluto correrle incontro, abbracciarla, ma non poteva. Guardava quella figura tanto magra e sfinita senza poter dire una parola, altrimenti in quel campo si rischiava la morte. Quella sera Sami nella sua baracca non cenò. Avvolse la sua cena, solo centoventicinque grammi di pane, in un tovagliolo, lo mise in tasca e uscì nel gelo della notte. Sua sorella era tornata a fargli visita e gli sorrideva a piedi nudi oltre quel filo spinato attraversato dalla corrente elettrica. Sami infilò la mano in tasca e in un gesto d’amore puro sollevò il braccio scagliando il tovagliolo ripieno di pane, lontano, verso sua sorella Lucia. Era un modo di raccontarle tutto il suo amore, la sua voglia di prendersene cura e di proteggerla. Fu nello stesso istante che la sorella compì lo stesso gesto e lanciò il suo pane, i suoi centoventicinque grammi giornalieri, oltre la recinzione mortale, verso Sami. Anche lei lo amava, lo aveva veduto dimagrito, emaciato nel volto e aveva scelto come lui di saltare il pasto per offrirglielo.
Sami aveva compiuto da poco tredici anni, ma ne dimostrava alcuni di più. La famiglia, giunta a Birkenau, aveva superato la prima brutale selezione: il cenno verso sinistra del medico nazista, che giudicava a vista, voleva dire camera a gas e forno. Il cenno verso destra indicava invece i “privilegiati”, risparmiati perché giudicati forti e adatti a sopportare i lavori più duri. In pochi giorni di internamento, quasi tutto era divenuto chiaro, anche nello sguardo del ragazzino. La fuggevole e quotidiana visione di sua sorella, oltre la cortina di ferro attraversata dalla corrente, confortò Sami fino al giorno in cui non la vide più. Comprese allora che era andata all’infermeria, anticamera della morte. Suo padre, sfinito dal lavoro massacrante, dal freddo, dalla fame e dalle torture, gli aveva rivelato infatti sere prima la decisione di farsi visitare. Andare all’infermeria era consegnarsi definitivamente al nemico, era da parte del prigioniero una metafora che significava “non ce la faccio più, mi arrendo”. Ma prima di consegnarsi agli assassini, impose al figlio di tenere duro: «Sami, tu sei forte, devi farcela. Ce la farai!». E così il ragazzino di Rodi, diventato improvvisamente adulto, restò solo a combattere per la vita. Il suo numero di matricola era “B7456”, un numero in più di quello di suo padre Giacobbe e molte volte nella solitudine e nella disperazione di certi momenti, Samuel lo guardava emozionandosi e lo accarezzava pensando alle parole di suo papà e sentendo un calore nel suo corpo che gli donava il coraggio di andare avanti.
Penso all’amore negato dal nazismo, alle persone ridotte a scheletri viventi, private della loro dignità, che continuavano ad amarsi nei campi di concentramento come racconta questo episodio vissuto da Samuel Modiano.
Sami, come quasi tutti i sopravvissuti all’Olocausto, aveva taciuto per quasi tutta la vita la sua storia fatta sì di amore, ma di denso dolore perché nel raccontarla, la sofferenza era come raddoppiata: esisteva il male emotivo della cronaca e dei ricordi incancellabili di tutte le sofferenze patite, e a tutto questo si aggiungeva il dolore puro che suscitava l’incredulità di molti di coloro che lo ascoltavano. «Guardandoli, sembrava mi volessero dire che non credevano alla mia storia. E questo, ancora una volta, mi feriva a morte.» Racconta Sami. Alla fine, dopo molte incertezze, ha prevalso il dovere di trasmettere ai giovani la testimonianza vissuta di quello che è stato l’Olocausto nel cuore dell’Europa, e di onorare chi fu annientato dall’odio razziale degli aguzzini nazisti. Da molto tempo il suo impegno è quello di raccontare l’orrore dell’Olocausto agli studenti delle scuole italiane, con dedizione e con amore; impegno che lo rende felice e sereno, che gli fa sostenere il peso della tragedia che ha sopportato da bambino e che ha segnato la sua adolescenza e tutta la sua vita.
Il sogno di Sami Modiano era quello di studiare, ma non ha potuto realizzarlo proprio perché da piccolo fu deportato ad Auschwitz-Birkenau. È per questo che nel novembre 2013, in occasione della cerimonia di inaugurazione dell’anno accademico dell’università La sapienza, Samuel Modiano, sopravvissuto ai campi di sterminio di Auschwitz-Birkenau, ha ricevuto la laurea honoris causa in Storia, antropologia e religioni.
Segnalo il libro che lui stesso ha scritto, pubblicato da Rizzoli nella collana Saggi italiani nel 2013 e riedito nel 2014: Per questo ho vissuto. La mia vita ad Auschwitz-Birkenau e altri esili.